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domenica 17 febbraio 2013

Recensione: “Le affinità alchemiche”– Gaia Coltorti

TRAMA (da amazon.it):Giovanni ha diciotto anni, trascorsi quasi tutti a Verona, dove è nato. Una vita tranquilla, qualche amico e, ogni giorno, i lunghi allenamenti in piscina per prepararsi alle gare. Anche a casa regna la quiete: Giovanni vive solo con suo padre, notaio, in quel genere di grande appartamento abitato da due uomini che ogni donna può immaginarsi. Selvaggia ha diciotto anni, molte amiche e diversi spasimanti, vive sul mare e assapora l'estate appena iniziata quando sua madre le sconvolge la vita: si trasferiranno per ragioni di lavoro. Selvaggia cambierà scuola, dovrà ricominciare tutto da capo e lo dovrà fare a Verona, la città dove è nata e da cui proprio la mamma, tanti anni prima, l'aveva portata via, separandola dal padre e dal fratello gemello. Quando Selvaggia varca per la prima volta la soglia della nuova casa, Giovanni è rintanato in camera sua. Gli basta la voce di lei per capire che nulla sarà più come prima. Giovanni scopre quella voce come un regalo, ma al tempo stesso la riconosce, è un suono che vive da sempre dentro di lui: Selvaggia, la sorella perduta, è tornata nella sua vita, per sempre. Lei a Verona non conosce nessuno: solo Johnny - come lo ha subito ribattezzato - può farle da guida e tenerle compagnia nei tre lunghi mesi che devono trascorrere prima della ripresa scolastica. Selvaggia è bellissima, piena di fascino ma anche capricciosa fino allo sfinimento, croce e delizia per il fratello ritrovato. Presto tra i due si sprigiona un'elettricità, un magnetismo, un'affinità...
I motivi per cui ho letto questo libro non sono esattamente nobili. Ho letto l’intervista alla sua autrice su Vanity Fair e l’ho trovata antipatica e un po’ presuntuosa, di quella presunzione coperta di falsa modestia (spero mi perdoni, se mai dovesse passare di qua). Insomma, ho scaricato il libro per vedere quanto faceva schifo. Beh, non fa schifo.
L’autrice ha vent’anni, e l’ha scritto a diciassette. Tanto di cappello, assolutamente. Una storia controversa, provocante, destinata a far discutere. La storia di un incesto, raccontato senza volgarità, senza grottesco compiacimento.
I due personaggi principali, Selvaggia e Johnny, ci sono, eccome. Sono profondi, completi, ben descritti e soprattutto ben scritti. Quello che manca è lo sfondo. Mancano le città, Verona, Genova e Roma. Mancano soprattutto i loro genitori, che sono due figure di carta appena ritagliate, e assolutamente inverosimili. Peccato, davvero. L’autrice avrebbe potuto far di più, perché è in grado.
E’ un libro scritto bene, con uno stile molto personale, anche se a tratti un po’ ingenuo. La voce narrante è esterna, un narratore onnisciente senza volto che si rivolge a Johnny con il tuo e lo accompagna in questa storia di amore, dolore e perdizione. Una lingua che mescola stilemi alti, suoni arcaici a voci da fumetto, e a slang giovanili. Un mix che ho apprezzato, che non ho trovato né presuntuoso né lezioso, come invece ho letto altrove. Qua e là c’è qualche ingenuità, che credo nel prossimo romanzo della Coltorti non ci sarà più.
Però..c’è un però. Da metà in poi siamo stufi, la storia si trascina, non ci sono nuovi eventi, il supposto colpo di scena finale non è tale. La trama è piatta, incolore. Non si arricchisce, continua sempre uguale precipitando verso un finale scontato, che a quel punto i personaggi si meritano in pieno. Peccato, di nuovo, perché l’autrice ha tutte le carte per far di più, come ho già detto.                        Il vero mistero, a parer mio, è perché abbia scelto di raccontare una storia del genere. Non riesco a leggerci sotto nessun messaggio, niente di niente. Solo una provocazione che.. non provoca nessuna reazione. Nemmeno un sano disgusto.
Ok, questa recensione è negativa. Ma Le affinità alchemiche non è un brutto libro, e il linguaggio dell’autrice fa concorrenza a quello di scrittori più adulti e più affermati di lei.

(Post pubblicato, in origine, qui)

sabato 16 febbraio 2013

Recensione: “Quel che ora sappiamo”–Catherine Dunne

TRAMA (da qlibri):
Daniel Grant è un adolescente appassionato e di talento: la musica, il disegno, la fotografia, le uscite in barca a vela. Ha un amico del cuore, che per lui è come un fratello, e una famiglia allargata calorosa e avvolgente nella sua complessità. Non manca niente, e il futuro si preannuncia altrettanto generoso. Fino a una domenica di settembre e a un evento tragico che precipita Ella e Patrick, i suoi genitori, in una voragine di dubbi e sensi di colpa. Perché è accaduto? E loro, sempre così dediti e attenti, dov’erano? Quali segnali non hanno saputo o voluto cogliere? Scoprire la verità, per quanto dolorosa, è l’unico modo per dare un senso e prospettive dignitose a una vita che sembra aver perso ogni sapore, ogni colore. Perché «non c’è nulla di più potente della conoscenza», anche quando rischia di annientarti. Comincia così una ricerca ostinata di tracce e responsabilità, fatta anche di brucianti attriti familiari, che illumina a poco a poco di una luce diversa volti, situazioni, dettagli appena intravisti e poi rimossi, ma restituisce al tempo stesso la certezza della gioia condivisa, dell’amore scambiato. E il finale, contrariamente a ogni aspettativa, è una festa, un commiato colmo di speranza da un gruppo di personaggi disegnati con una sapienza e una delicatezza sorprendenti, più veri del vero, eppure – anzi, forse proprio per questo – straordinari.
Il mio primo pensiero, leggendo le prime pagine è stato…”non devo farlo leggere a mia mamma”.  L’argomento è purtroppo di grande attualità, ma non per questo meno angosciante. Patrick e Ella si trovano a fare i conti col suicidio del figlio, in una girandola di responsabilità, di silenzi, di colpe, di non detti. Di “troppo tardi”, di rabbia, di paura.  Marito e moglie, genitori dello stesso figlio, innamorati ma molto distanti come età e come vissuto, essendo lui già padre di tre figlie, che a modo loro li aiutano nella lotta contro il male, li aiutano a risalire verso la quiete, dopo aver risolto le loro divergenze.
L’ho letto d’un fiato, per vedere come andava a finire, in poche ore. Ma non posso dire che mi sia piaciuto. Il racconto è spezzettato, non si capisce bene quando siano ambientati gli eventi narrati, qua e là c’è qualche imperfezione anacronistica (il Blackberry esisteva già nel 1999?), il racconto è affidato a troppe voci, che non riescono a scandagliarlo. I personaggi, Ella e Patrick, sono dei ritagli, piatte figure di carta. O meglio: dei mal riusciti collage di altri, e ben più grandi, personaggi della Dunne.

(Post pubblicato, in origine, qui)

giovedì 14 febbraio 2013

Recensione: “Il giardino delle pesche e delle rose”– Joanne Harris

TRAMA (da qlibri): Il vento ha ricominciato a soffiare. Vianne Rocher lo sa: è un segnale, qualcosa sta per succedere. Quando riceve una lettera inaspettata e misteriosa, capisce che ormai niente può opporsi a quel richiamo. Vianne non ha altra scelta che seguirlo e tornare a Lansquenet, il villaggio dove tutto è cominciato, il paese dove otto anni prima aveva aperto una cioccolateria. Qui, adesso come allora, regnano ancora la diffidenza e i pregiudizi, ma molte cose sono cambiate. Il profumo delle spezie e del thè alla menta riempie l'aria, donne vestite di nero camminano veloci e a capo chino per le viuzze e di fronte alla Chiesa, sulla riva del Tannes, è stato costruito un minareto. All'inizio la convivenza tra gli abitanti e la comunità musulmana era stata tranquilla e gioiosa, ma un giorno tutto era cambiato ed erano iniziate le incomprensioni, le violenze, il fuoco. Il curato Francis Reynaud è disperato e vuole a tutti i costi salvare la sua comunità e tornare all'armonia di una volta. E ha capito che solo una donna può aiutarli, Vianne, l'acerrima nemica di un tempo. Solo lei potrebbe portare la pace, solo lei potrebbe capire gli occhi diffidenti e impauriti delle donne che si celano sotto il niqab. Ma soprattutto solo lei può comprendere l'enigmatica e orgogliosa Inès. Ma non è facile leggere la paura e sconfiggere le ipocrisie e le menzogne che serpeggiano tra le due comunità. Eppure Vianne sa come fare, c'è una vecchia ricetta che potrebbe venirle in soccorso
Il titolo originale è incomparabilmente più bello: Peaches for Monsieur le Curé.
Chocolat mi è piaciuto, Le scarpe rosse mi ha stregata, Il giardino delle pesche e delle rose…l’ho adorato. Uno di quei libri che non vedi l’ora di finire, e appena l’hai finito sei persa, sola. Con l’ultima pagina, rimaniamo orfani di Vianne Rocher, che deve riprendere il suo viaggio.
Vianne di nuovo a Lansquenet. Vianne che deve aiutare quello che nel primo romanzo era il suo nemico, Monsieur le Curé. Di nuovo una narrazione a due voci, che stavolta sono quella di Vianne e quella di Reynaud. Ed è meraviglioso come attraverso questo scambio di voci la Harris riesca a farci entrare nel personaggio, a farci provare simpatia, paura, commozione per padre Francis, che in Chocolat ci provocava solo antipatia e indignazione.
Una Lansquenet cambiata,  con dei nuovi abitanti, i cosiddetti maghrébins, che ci diventano familiari come Joséphine e Caroline Clairmont. Una storia di integrazione, di ignoranza, di pregiudizi. Di violenza, di barbarie, di paura. Di amicizia, di amore. La Harris ci racconta tutto questo con toni delicati, ma senza nasconderci le nostre ipocrisie quotidiane, piccole ma non meno aberranti.
E accanto a Vianne, a Anouk, a Rosette, a Bam e Pantoufle c’è sempre Roux, che questa volta è meno domestico, più coraggioso e zingaresco, com’era in Chocolat. E la stessa Vianne coraggiosa di Chocolat si ritrova a fare i conti con le difficoltà di un rapporto di coppia, i dubbi e le gelosie. E forse impara ad ammettere di aver bisogno di qualcuno.

(Post pubblicato, in origine, qui)